Il marchio patronimico
La forza distintiva del marchio patronimico è tale da fondare un giudizio di confondibilità anche in presenza di varianti significative
Il marchio patronimico
Il marchio patronimico è un marchio formato dal nome e cognome ovvero dal solo cognome di una persona fisica.
Di regola, in presenza di un marchio composto da nome e cognome è a quest’ultimo che si riserva più attenzione nel giudizio di confondibilità con un segno simile, con la conseguenza che in caso di identità del solo cognome, sarà ritenuto comunque confondibile quel marchio patronimico che si differenzia solo per il nome.
Ovviamente occorrerà distinguere di volta in volta, essendo possibile che al contrario sia il nome quello meno diffuso e, dunque, maggiormente distintivo rispetto ad un cognome, invece, particolarmente diffuso.
Per superare un rischio di un giudizio sfavorevole e al fine di rafforzare la distintività del marchio, in sede di registrazione è consigliabile registrare il solo cognome.
Il giudizio di confondibilità
Certo è che al di là del caso concreto la dottrina e la giurisprudenza costanti ritengono che il marchio patronimico sia comunque un marchio forte, ossia un marchio dotato di una forte capacità distintiva in quanto il nome e/o il cognome, di regola, non presentano collegamenti con i prodotti o servizi che contraddistinguono.
Proprio a causa della sua forza distintiva, nel giudizio di confondibilità tra marchi patronimici non si tengono conto affatto di ulteriori elementi che caratterizzano i segni a confronto, né di differenze tra gli stessi, essendo sufficiente la mera assonanza tra i patronimici.
Numerose sono le massime in tema di giudizio di confondibilità dei marchi patronimici, ad esempio:
- “il segno patronimico inserito in un marchio complesso ne costituisce il “cuore”, svolgendo precipua funzione individualizzante. Nel giudizio di confondibilità tra marchi complessi, la somiglianza può essere valutata esclusivamente sulla base dell’elemento dominante, di talché la pedissequa ripresa, da parte del concorrente, dell’elemento avente precipua funzione individualizzante (c.d. cuore del marchio), integra un’ipotesi di contraffazione”. Fonte De Jure – Rivista di Diritto Industriale 2019, 3, II, 160.
- “Il marchio patronimico, in quanto marchio forte, quando inserito entro un marchio complesso ne costituisce il necessario cuore, risultando irrilevanti tutti gli altri elementi che lo compongono”. Fonte De Jure – Rivista di Diritto Industriale 2016, 2, II, 113.
- “Ricorrono gli estremi della contraffazione a fronte di un marchio che riproduca l’elemento patronimico di un marchio anteriore altrui, che ne costituisce il cuore, atteso che il rischio di confusione non è escluso dall’aggiunta di meri elementi di dettaglio (nella specie, la Suprema Corte, in applicazione di tale principio, ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la contraffazione del marchio anteriore registrato “Campanile” da parte di quello “AVC by Adriana V. Campanile”, entrambi per calzature)”. Fonte De Jure – Foro it. 2012, 10, I, 2804.
- “Il nome patronimico integra l’ipotesi del marchio forte, perché normalmente svincolato dall’oggetto dell’attività cui esso si riferisce, e la sua tutela, che può attuarsi addirittura con l’ordine di eliminazione del patronimico stesso dal segno distintivo, quando ciò sia indispensabile per elidere la confondibilità, può anche avvenire con l’ordine di modificazione della denominazione con aggiunta di nomi dotati di sufficiente capacità distintiva, quali nomi di fantasia che escludano la confondibilità per l’utente”. Fonte De Jure – Gadi 2008, 1, 713.
Le regole sulla registrazione del marchio patronimico
La legge autorizza la registrazione come marchio di nomi di persone. L’art. 8 c.p.i. infatti recita: “I nomi di persona diversi da quelli di chi chiede la registrazione possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi”.
Tralasciando quella che resta solo sulla carta la facoltà dell’UIBM di subordinare la registrazione al consenso di chi ha il diritto di portare tali nomi, l’art. 8 c.p.i. prosegue precisando che “la registrazione non impedirà a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta, sussistendo i presupposti di cui all’art. 21, comma 1”.
Varrà la pena richiamare l’attenzione sul significato di ditta che è cosa differente dalla ragione sociale delle società di persone e dalla denominazione sociale delle società di capitali. La ditta, infatti, è il nome commerciale dell’imprenditore persona fisica e le norme del codice civile impongono l’uso del cognome o della sigla dell’imprenditore (art. 2563 c.c.) nella ditta prescelte per contraddistinguere l’impresa individuale. Pertanto a fronte di un obbligo di legge, non potrà costituire contraffazione di marchio l’uso del proprio cognome nella ditta perché tale uso è imposto dalla norma.
Costituirà invece comportamento illecito l’uso della ditta in funzione di marchio e, comunque, oltre i confini dettati dall’art. 21 c.p.i.
L’uso lecito del marchio patronimico altrui
L’art. 21 c.p.i., richiamato dall’art. 8 c.p.i., è rubricato “Limitazioni del diritto di marchio” e prevede, parafrasando, che il titolare di un marchio patronimico non possa vietare al terzo l’uso nell’attività economica, del loro nome o indirizzo, qualora si tratti di una persona fisica e purché l’uso fatto dal terzo sia conforme ai principi della correttezza professionale.
Inoltre l’uso da parte del terzo dovrà essere fatto in modo da non ingenerare un rischio di confusione sul mercato o da indurre comunque in inganno il pubblico.
Il tutto dovrà essere valutato sotto la lente della correttezza professionale che giudicherà illeciti quei comportamenti in cui la finalità descrittiva, cui si ispira la norma, in realtà costituisce il pretesto per un uso distintivo che sarebbe vietato.
La celebre sentenza della Cassazione, nel caso Fiorucci, ha così stabilito “l’inserimento, nel marchio, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in una ambito strettamente delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla persona che ha certo il diritto di svolgere una propria attività economica ed intellettuale o creativa ma senza trasformare la stessa in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva” (Cass. 10826/2016).
Tale valutazione parte dal principio esposto nella stessa sentenza della Corte di Cassazione secondo cui nel giudicare sul bilanciamento tra il diritto ad usare il proprio nome in un’attività economica, da una parte, e il diritto di esclusiva del titolare del marchio patronimico, dall’altra, occorre considerare che: “un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio denominativo non può essere di regola adottato, in settori merceologici identici o affini, come marchio, salvo il suo impiego limitato secondo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell’ambito dell’attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione” (Cass. 10826/2016).