Informazioni aziendali riservate
L’uso illecito delle informazioni aziendali
In ambito concorrenziale è fisiologico sfruttare le altrui iniziative commerciali per acquistare segmenti di mercato. Fisiologica è anche l’opera di promozione sul mercato della propria attività con il fine di acquisire clienti già in rapporto con imprese concorrenti. Fisiologico, infine, è assumere dipendenti o collaboratori qualificati di aziende concorrenti per aumentare la forza commerciale ed industriale della propria attività.
Perseguire queste finalità trova un limite nella correttezza professionale, per cui l’utilizzo di mezzi illeciti ben potrà costituire un atto di concorrenza sleale o violazione di diritti di privativa industriale. La condotta del concorrente, cui potrà aggiungersi l’illecito commesso dall’ex dipendente o collaboratore, dovrà di volta in volta essere analizzata in concreto al fine di stabilire la configurabilità o meno di un illecito.
Rilevante nella prassi è la sottrazione da parte di ex dipendenti o collaboratori (ad. es agenti) di informazioni aziendali che pur non rivestendo le caratteristiche di segreto commerciale, hanno comunque per l’azienda un valore economico. Informazioni che poi vengono utilizzate dal concorrente o dagli stessi ex collaboratori che avviano un’attività in concorrenza.
Tra queste informazioni ci sono quelle relative a: liste clienti, informazioni concernenti i prezzi di vendita, scontistica applicabile ai clienti, condizioni contrattuali applicate, percentuali di provvigioni che vengono pagate alle agenzie, dati sul fatturato generato da determinati prodotti o marchi.
Ebbene la giurisprudenza e la dottrina che hanno trattato il tema della concorrenza sleale ampiamente riconoscono tutela a questo tipo di informazioni anche se non possiedono tutte le caratteristiche previste dagli artt. 98 e 99 c.p.i., ad esempio perché non sono state oggetto di particolare protezione da parte dell’azienda detentrice.
Resta comunque consigliato far sottoscrivere all’ex dipendente (al quale non si applica più l’art. 2105 c.c.) appositi accordi di riservatezza e non divulgazione, ovvero di non concorrenza, anche se a fronte di un corrispettivo, nonché implementare i regolamenti aziendali dando atto dell’importanza economica di questi dati e della necessità di mantenere la loro riservatezza all’esterno anche successivamente alla cessazione del rapporto con l’azienda.
Nelle controversie che trattano questi temi, chi è accusato di aver compiuto un illecito è solito difendersi sostenendo che tali informazioni appartengono al proprio bagaglio culturale e come tali non possono essere monopolizzate dall’azienda o che tali informazioni sono comunque accessibili al pubblico.
Ebbene, occorre evidenziare che il bagaglio culturale del dipendente non può avere ad oggetto la precisa combinazione di informazioni aziendali che nulla hanno a che fare con l’attività svolta dal dipendente, essendo queste un mezzo eventualmente utilizzato nello svolgimento dell’attività. Un conto, infatti, sono le capacità professionali acquisite dal dipendente che costituiscono un suo patrimonio esclusivo che legittimamente può sfruttare per migliorare la propria posizione lavorativa, altro sono le informazioni aziendali che restano non utilizzabili anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Tale differenza può essere difficile da discernere e ancor più da provare, rispondendo la scelta anche ad un’esigenza di bilanciamento tra la mobilità del dipendente e tutela del patrimonio aziendale.
Inoltre, la riservatezza delle informazioni va valutata con riferimento al loro insieme, alla loro combinazione e non al singolo dato, con la conseguenza che ipotizzando che tutte le singole informazioni di pubblico dominio o facilmente accessibili, l’illecito non è escluso se il concorrente sfrutta in modo parassitario le informazioni, acquisite peraltro in modo contrario alla correttezza professionale, senza sostenere i costi di tempo e denaro legati alla loro ricerca, individuazione, elaborazione e sperimentazione.
A tale ultimo punto è collegato il provvedimento di inibitoria richiesto da chi è vittima dell’illecito in parola, che può consistere nell’impedire al concorrente, oramai in possesso delle informazioni, di utilizzarle sotto comminatoria di una penale per un determinato periodo di tempo; periodo di tempo in cui il concorrente avrebbe potuto ottenere con i propri sforzi e a proprie spese gli stessi risultati.